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Pasqua in Salento: grika e pampasciuni

Canti in lingua grika e tante pietanze legate alla simbologia cristiana: i mille volti della Pasqua salentina

Otranto lungomare
©Shutterstock
E’ una terra per buongustai, per gli amanti della natura e del vivere slow, isola felice dove la qualità della vita premia al punto da essere eletta “Territorio dell’anno 2013” da Italia Touristica passando avanti alle Cinque Terre, alla Costiera Amalfitana, al Chianti e alla Versilia. In occasione di Pasqua, dunque, il Salento invita a riscoprire le tradizioni di una volta, a cominciare da Martignano, nel cuore della Grecìa Salentina da dove arriva l’eco dei Canti della Passione. Sono intonati nella lingua grika, un dialetto molto simile al greco arrivato nel Salento con i primi coloni greci nell’Antichità classica e ulteriormente rinverdito dai monaci bizantini, in fuga dall’Oriente, nel XI secolo per le lotte iconoclaste. Durante la Settimana Santa i contadini giravano per le case dei borghi o andavano nelle masserie ad intonare questi canti, narrando in musica la storia di Gesù. Il canto si concludeva spesso con un dono: una puccia (il tipico pane salentino), un po’ di formaggio e, quando si voleva strafare, qualche uovo. 

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A Calimera il griko si insegna anche in una scuola specifica e viene utilizzato per pregare, in attesa della Pasqua. Ma Calimera è famosa per il Rito della Rinascita. Il Lunedì dell’Angelo infatti, gli abitanti si danno appuntamento davanti alla chiesa di San Vito, fuori paese, tra alberi di ulivo e muretti a secco. Al centro della piccola chiesa si erge una pietra forata il cui attraversamento evoca il parto e quindi la rinascita, procacciando fortuna e fertilità. Si tratta di un rito antichissimo, sicuramente legato al culto di Demetra, la Dea Madre. Con il tempo la chiesa cattolica ha inglobato e cristianizzato il rito pagano. La pietra forata è infatti confitta nel terreno. E intorno ad essa è stata costruita la piccola chiesa di San Vito, protettore degli animali.

La Pasqua è preceduta nel Salento dalle Tavole di San Giuseppe. Anche questo rito ci ricorda quanto il Salento sia stato, in passato un incontro di popoli e di culture. Infatti le Tavole sono state introdotte dal popolo albanese, durante il Medioevo. Il 18 e il 19 marzo di ogni anno vengono allestite nelle case dei privati e in piazza le Tavole di San Giuseppe. Ogni paese ha i suoi rituali.

A Erchie, lungo tutto il corso principale vengono allestite dall’Amministrazione comunale e dalle associazioni di volontariato le Mattre (Tavole) di San Giuseppe. Vi spiccano 13 pietanze strettamente legate alla simbologia cristiana e all’arrivo della Primavera: il pesce fritto, simbolo di Gesù, le ncartiddhate, dolci tipici ricoperti di miele: piccole fasce di pasta fritta e avvolta su se stessa fino a formare una rosellina, che ricorda le fasce di Gesù Bambino, la mattra: pasta fatta in casa, in parte bollita e in parte fritta, condita con i ceci, che ricorda i colori del narciso, e quindi l’arrivo della Primavera, li pampasciuni, cipolline selvatiche dal gusto amarognolo, legati all’arrivo della bella stagione, infine i grandi pani a forma di ruota, con le arance al centro. Impedibili gli uccelli di pane portafortuna: allontanano il maltempo dalle case e dai raccolti. A mezzogiorno il sacerdote benedice le Mattre e tutti prendono un po’ di quel cibo.

Informazioni turistiche:
www.viaggiareinpuglia.it,
www.salento.it


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