Quel qualcosa in più che la scelta di certe location aggiunge a un film non sempre si può quantificare dal punto di vista meramente turistico, né finisce per il 'limitarsi' alla forza delle stesse all'interno della storia, narrativamente parlando. A volte sono le sfide che comporta girare in determinate zone e situazioni a spingere in alto un film, o a diventare uno stimolo per gli attori e i cineasti che ci si confrontano.
Come è successo ai due registi italiani di Mine, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, all'esordio anche come sceneggiatori, per aver scelto di girare nell'incredibile scenario desertico di Fuerteventura, nelle Isole Canarie. Una decisione importante, rivelatasi indovinata, e che ha svolto un ruolo di primo piano nella produzione internazionale della vicenda raccontata. Quella di Mike, soldato statunitense in Afghanistan - interpretato da Armie Hammer - obbligato a rimanere immobile in attesa di aiuto per due giorni e due notti per esser finito in un campo minato e con un piede su una mina antiuomo.
Una storia universale, che parla al pubblico coinvolgendolo in un vero e proprio viaggio dell'anima. E che non poteva trovare miglior ambientazione di un deserto, luogo perfetto per mettere in scena il dissidio di un uomo con se stesso. I due registi l’avevano sempre immaginato sabbioso, in realtà, come quello sub-sahariano, ma la logistica e il budget li hanno costretti a trovarne uno in Europa che avesse le stesse caratteristiche. Quelle che offrivano le zone desertiche del Corralejo e dell'intera Isola di Fuerteventura, dichiarata - insieme all'habitat marino circostante - Riserva Mondiale della Biosfera dall'UNESCO nel 2009.
Girare per cinque settimane sulla seconda isola delle Canarie comportava non poche difficoltà, in primis per il vento, che lì soffia fortissimo, facendo 'correre' le nuvole con conseguenti difficoltà di coerenza fotografica. Ma la sfida è risultata affascinante, nel suo complesso: per le situazioni ambientali del racconto e le inquadrature previste nello storyboard, per gli ostacoli che i veicoli avrebbero potuto incontrare nel raggiungere il posto alla distanza tra le varie location fino alla necessità per la troupe di perlustrare il deserto per ore alla ricerca della duna perfetta, perché come amano ricordare: "non esiste una mappa delle dune".
La combinazione tra il vasto sfondo e i pochi elementi che vi si stagliavano, o il fatto di essere - per la maggior parte del tempo - un unico personaggio immobile, ha dato la possibilità ai registi di creare delle composizioni simboliche, quasi stilizzate. Utili all'iconografia dell’ambiente e all'idea di rendere Mike una sorta di astronauta bloccato in un paesaggio alieno. Non a caso l'inquadratura in cui Hammer non è che un puntino in ascolto della radio è stato chiamato il 'Man on the Moon shot'...
"Per noi questo film rappresenta una metafora della condizione umana - spiegano i due registi. - A ognuno di noi è capitato di ritrovarsi in una situazione di stallo, un momento della vita in cui ci sembra di essere bloccati. In cui 'andare avanti' sembra impossibile a meno di non rinunciare a tutto quello che abbiamo e in cui ci identifichiamo. Nel film abbiamo cercato di esplorare questa condizione mentale con un viaggio che si muove sempre di più dalle circostanze esterne di un ambiente ostile verso l'interno del personaggio, il suo subconscio. Ci piaceva l’idea innovativa per cui le visioni si comportavano come oggetti o persone reali nel deserto. In questo modo, avremmo evitato soluzioni visive goffe e iperboliche, e avremmo aumentato l’immedesimazione con Mike, confondendo i contorni di cosa è reale e cosa non lo è, abbattendo la separazione netta tra interiorità del personaggio e condizione del mondo reale esterno".