“Dove sta il segreto di Istanbul? Nella miseria che vive accanto alla sua grande storia, nel suo condurre segretamente una vita chiusa di quartiere e di comunità, nonostante fosse così aperta agli influssi esterni, oppure nella sua vita quotidiana costituita di rapporti infranti e fragili, dietro la sua chiara bellezza monumentale?” Orhan Pamuk nel suo libro "Istanbul” - forse uno dei più bei ritratti mai scritti sulla metropoli turca - si pone ripetutamente interrogativi simili, spronato da una impietosa convinzione di fondo: che il destino di Istanbul sia la tristezza (hüzün in turco), un fondo di malinconia condivisa accolto dagli abitanti come scelta e dovuto all'incapacità di crearsi una vera identità dopo il crollo dell'impero ottomano e la successiva “turchizzazione” di Costantinopoli operata dall'eroe nazionale Atatürk. Insomma, una città né carne né pesce, né Europa né Asia, non più multietnica e non ancora del tutto occidentalizzata ma, soprattutto, drammaticamente povera, addirittura miserabile nella sua finta ricchezza. Lo sguardo appassionato di Pamuk, che poeticamente indugia e si arrovella sugli aspetti meno nobili di Istanbul, speculari alle intime confessioni del suo flusso di coscienza personale, ha l'effetto di amplificare invece che sminuire, la bellezza imperscrutabile di una città che ha il potere di seduzione incastrato proprio nei meandri meno risolti della sua identità nazionale. Quel suo essere "infinita e senza centro" - citando sempre Pamuk - non disturba chi si appresta a visitarla per la prima volta. Come me.
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