L'amore non ha confini, si dice, e la storia della letteratura e del cinema non fanno che raccontarcelo sin dall'inizio dei tempi. Oggi un film ci offre una variazione sul tema, approfittando di un angolo di mondo che da sempre è sinonimo di tensioni e divisioni. La Palestina raccontata in Sarah & Saleem – Là dove nulla è possibile di Muayad Alayan è teatro di una relazione extraconiugale molto particolare, che diventa subito simbolo di qualcosa di più. Un caso politico che esplode nella Gerusalemme tanto amata dal regista, che ce la presenta come non sempre accade.
L'adulterio impossibile cui assistiamo è quello tra l'israeliana Sarah, che gestisce un bar a Gerusalemme Ovest, e il palestinese Saleem, fattorino di Gerusalemme Est. I due appartengono a mondi distanti anni luce tra loro, ma si incontrano nel furgoncino dell'uomo per godere delle reciproche passione e complicità. Una fuga dalle tensioni che vivono in famiglia e nella società che li circonda. Che li piomba tra forze occupanti e resistenza, in un crescendo di inganni e mistificazioni che nemmeno la verità sembra più essere in grado di fermare.
Una storia che incredibilmente il regista ha tratto dalla realtà, e che ammette di aver scoperto da giovane quando lavorava in un caffè di Gerusalemme Ovest. "Molti palestinesi dell'Est vennero arrestati nelle continue incursioni dei militari israeliani nei territori palestinesi", racconta. E ancora oggi - a suo dire - "non puoi camminare per strada a Gerusalemme senza sentirti monitorato in quanto palestinese. Tutti sono sotto controllo a Gerusalemme, non si può evadere la sicurezza e i checkpoint sono ovunque. Le conseguenze per me, come palestinese, sono decisamente più alte quando le cose vanno male, ma è una sensazione che avvertiamo tutti".
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Anche in quanto filmmaker, visto che le riprese si sono svolte durante l'estate del 2017, in un periodo segnato da moti di rivolta… "Abbiamo dovuto superare molti blocchi stradali, cambiare improvvisamente location - ricorda. - E a molti di noi non era permesso superare i controlli tra Betlemme e Gerusalemme". "Gerusalemme è la più grande illusione di una città aperta - è la conclusione… - Uguaglianza, libertà, pace, democrazia… È tutta un'illusione, un costrutto di illusioni elaborato con cura".
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"Siamo riusciti a portare avanti la produzione in un periodo molto duro e difficile durante l'estate, quando sono scoppiati gli scontri intorno alla moschea di Aqsa e il livello di tensione nella città era alto - dice Muayad. - Neanche le riprese a Betlemme sono state facili. Sebbene avessimo tutti i permessi ufficiali necessari per girare nell'area controllata dai palestinesi, l'esercito israeliano ha invaso Betlemme e interrotto le nostre riprese per ispezionare quello che stavamo facendo e confiscare veicoli e oggetti di scena mentre trattenevano me e altri membri dell'equipe per diverse ore".
"L'intenzione - continua il regista, - era quella di far vivere al pubblico la città insieme ai personaggi mentre questi ultimi navigavano nelle loro paure, passioni, sogni, delusioni, dilemmi e speranze, e mentre affrontavano le sorprese del destino e della vita in un sistema di occupazione, in una politica corrotta e in pressioni sociali che collettivamente formano l'antagonista contro di loro come singoli individui". "Il nostro ambiente era la Gerusalemme sotterranea" conclude parlando di una città dominata dalla "paura dell'interazione con l'altro" e di un Paese le cui dinamiche sono raccontante allegoricamente nella complessa relazione del film. "Nella nostra storia, i personaggi devono affrontare le illusioni che vengono create per loro nell'ambiente sociale e politico - ribadisce Muayad. - Ogni idea di autonomia per i palestinesi è ormai da tempo volata fuori dalla finestra: puoi avvertire l'illusione di un'autonomia ma non hai alcun controllo. In realtà, gli israeliani tengono tutto il controllo per sé".
L'adulterio impossibile cui assistiamo è quello tra l'israeliana Sarah, che gestisce un bar a Gerusalemme Ovest, e il palestinese Saleem, fattorino di Gerusalemme Est. I due appartengono a mondi distanti anni luce tra loro, ma si incontrano nel furgoncino dell'uomo per godere delle reciproche passione e complicità. Una fuga dalle tensioni che vivono in famiglia e nella società che li circonda. Che li piomba tra forze occupanti e resistenza, in un crescendo di inganni e mistificazioni che nemmeno la verità sembra più essere in grado di fermare.
Una storia che incredibilmente il regista ha tratto dalla realtà, e che ammette di aver scoperto da giovane quando lavorava in un caffè di Gerusalemme Ovest. "Molti palestinesi dell'Est vennero arrestati nelle continue incursioni dei militari israeliani nei territori palestinesi", racconta. E ancora oggi - a suo dire - "non puoi camminare per strada a Gerusalemme senza sentirti monitorato in quanto palestinese. Tutti sono sotto controllo a Gerusalemme, non si può evadere la sicurezza e i checkpoint sono ovunque. Le conseguenze per me, come palestinese, sono decisamente più alte quando le cose vanno male, ma è una sensazione che avvertiamo tutti".
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"L'intenzione - continua il regista, - era quella di far vivere al pubblico la città insieme ai personaggi mentre questi ultimi navigavano nelle loro paure, passioni, sogni, delusioni, dilemmi e speranze, e mentre affrontavano le sorprese del destino e della vita in un sistema di occupazione, in una politica corrotta e in pressioni sociali che collettivamente formano l'antagonista contro di loro come singoli individui". "Il nostro ambiente era la Gerusalemme sotterranea" conclude parlando di una città dominata dalla "paura dell'interazione con l'altro" e di un Paese le cui dinamiche sono raccontante allegoricamente nella complessa relazione del film. "Nella nostra storia, i personaggi devono affrontare le illusioni che vengono create per loro nell'ambiente sociale e politico - ribadisce Muayad. - Ogni idea di autonomia per i palestinesi è ormai da tempo volata fuori dalla finestra: puoi avvertire l'illusione di un'autonomia ma non hai alcun controllo. In realtà, gli israeliani tengono tutto il controllo per sé".