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L'Amazzonia peruviana è il Green Inferno di Eli Roth

Nel travagliato viaggio del film omaggio del regista americano lo spunto per scoprire una realtà diversa

Worldview Entertainment
Cuzco, il Lago Titicaca, l'altopiano di Nazca e il Macchu Picchu: questo è il Perù che tutti sognano. Quello che probabilmente tutti conoscono o al quale siamo abituati a pensare. Difficile convincere qualcuno a dirigere altrove i propri passi, rinunciando ad alcune delle mete più affascinanti e misteriose dell'intera America Latina. A meno di non avere gusti particolari, e di essere afascinanti dall'avventura che può regalare un viaggio nella Foresta Amazzonica.

Situata per circa il 65% in Brasile, l'Amazzonia estende i suoi confini anche in Colombia, Ecuador, Bolivia, Guyana, Suriname, Guyana francese, Venezuela (sede della cascata più alta del mondo, il Salto Angel) e - appunto - in Perù. Nel Perù più lontano dal Titicaca succitato, dal quale lo dividono 2300 km (2400, volendo passare per Nazca e il Macchu Picchu), quello centro orientale di Tarapoto. Una delle tante porte sulla Foresta, un importante centro commerciale e universitario, noto soprattutto per la vicinanza delle cascate di Ahuashiyacu e della laguna Azul.

Deve essere per questo che anche Eli Roth l'ha scelta per il suo Green Inferno, film dalla vita piuttosto complicata dichiaratamente ispirato al Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, forse anche nel tentativo di emulare lo scandalo che quello stesso suscitò nel 1979. Un film violento, che restituisce una immagine dell'Amazzonia che potrebbe terrorizzare molti potenziali turisti. Ai quali vale la pena ricordare che la finzione cinematografica è sempre e comunue tale: finzione.

Di vera c'è sicuramente l'ambientazione, cercata a lungo da Eli e dai suoi scout perché il film ricordasse quelli di Werner Herzog e Terence Malick. E scovata a circa 135 chilometri da Tarapoto, tra il porto di Yurimaguas e il fiume Aguirre (che prende il nome proprio dal celebre film del 1972 di Herzog, Aguirre, furore di Dio), in un villaggio di nativi che non erano mai stati filmati o fotografati da un occidentale prima. E che hanno reso l'esperienza incredibile, "una delle più folli della mia vita professionale", come la definisce Roth.

Che ha costretto la troupe a viaggi di un'ora a mezzo lungo il fiume per raggiungere il set e i cameraman a riprese mai realizzate prima, in condizioni uniche, al limite della sicurezza. Non da tutti, certo. Visto che non tutti saranno ugualmente motivati a raggiungere l'area e il villaggio di Callanayacu (in Quechua, l'antica lingua locale, "acqua salata"). Eppure i più coraggiosi potrebbero scoprire davvero un'angolo di mondo perduto, dove la realtà supera la fantasia e dove - in assenza di dinosauri in fuga (ma ragni e serprenti non mancano…) - ci si potrebbe riconciliare con natura e umanità scoprendo una inusuale semplicità di relazioni nelle gentilezza e curiosità degli indigeni.

"Niente elettricità o acqua corrente nelle capanne d'erba, con dieci persone stipate in ciascuna di esse. Sembrava un villaggio di un'altra epoca": la prima impressione raccontata dal regista sarà probabilmente quella che lo (e vi) accompagnerà per sempre. Più della piccola proiezione di Cannibal Holocaust organizzata per convincere i locali a lasciarlo filmare, scatenando il loro entusiasmo e dovendo accontentare le loro richieste di interpretare i cannibali del film, o più della fatica fatta per tranquillizzare il missionario apparso per caso sul set, persuaso che cadaveri e strumenti di tortura fossero veri…
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