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Dalle Marche al Texas con Roberto Minervini

Il regista di Stop the Pounding Heart, documentario premiato al Torino Film Festival, ci parla di come il machismo texano non sia tanto diverso da quello marchigiano

Texas
©Thinkstock
Gli Stati Uniti contengono alcuni dei luoghi più affascinanti al mondo e parte della loro forza sta proprio nell'estrema varietà. Il Texas è, nel suo “piccolo”, un simbolo perfetto di questo melting pot: grandi metropoli convivono con aree rurali in cui esistono ancora oggi realtà totalmente aliene alla nostra visione del mondo, estremismi religiosi e culturali, razzismo atavico. Queste realtà sono l'oggetto di un'esplorazione filmica in tre parti firmata da un regista italiano, il marchigiano Roberto Minervini.

Da sei anni ormai, Minervini vive in Texas a contatto con questi mondi isolati e con Stop the Pounding Heart, terza opera di una trilogia ideale, cerca di affrontarli senza pregiudizio. La storia, a metà tra documentario e fiction, ruota intorno a Sara, figlia di allevatori di capre che seguono la Bibbia alla lettera, e Colby, giovane cowboy da rodeo che di lei si innamora. “Fare questo film è stata una grande lezione di tolleranza – ci ha raccontato in occasione del Torino Film Festival, dove il film ha vinto il premio della giuria nella sezione Internazionale.doc – Spesso pregiudizio e intolleranza vanno di pari passo, ed essere intolleranti nei confronti di una minoranza spirituale, religiosa o culturale è una cosa tanto pericolosa quando il fondamentalismo religioso”.

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Che rapporto hai con queste persone e come hai affrontato il divario tra il tuo background e il loro?
Per me è stata una vera altalena di emozioni e pregiudizi: ne avevo tanti e ho capito che dovevo fare il film per batterli, o confermarli. Mettere da parte il mio background ideologico e culturale è stata la prima cosa da fare per essere aperto nei confronti del loro modo di vivere e pensare. Con entrambe famiglie ho una relazione duratura, alcune sorelle di Sara sono le babysitter dei miei figli piccoli. È stato più difficile rimanere aperto nei confronti della famiglia dei cowboy, più facile invece con gli allevatori perché apprezzo enormemente la loro integrità morale e l'onestà che li spinge a vivere secondo il loro credo, indipendentemente da quale esso sia.

Nel film vediamo questi ragazzini cavalcare tori con enorme naturalezza. Che effetto ti ha fatto?
In inglese si chiama emasculation, questa sensazione di essere un “uomo minore”. Io non sarei salito in groppa neanche a una capra, a dire il vero. A parte questo, il loro modo di relazionarsi così fisico, a petto in fuori, ostentando la forza maschile, non è tanto diverso da quello che ho vissuto nel corso della mia infanzia nelle Marche. Nel mio paese, da ragazzino, lo vivevo quasi come un clima di terrore e la cosa più difficile è stata proprio ritrovarmi in un ambiente così simile, affrontare ancora il mio passato.

Loro come ti vedevano, come percepivano la tua natura di italiano trapiantato in Texas?
Conosco queste due famiglie da circa quattro anni, e la chiave per raggiungere una simile intimità è stata essere trasparente sin dall'inizio. Io mi sono sempre presentato per come sono, ho parlato loro del mio credo, dei miei trascorsi nella FGCI, di mio nonno che si chiamava Soviet. Loro hanno interpretato tutto questo come volontà divina, un qualcosa da affrontare. Hanno avuto fede e fiducia in me, hanno accettato quello che sono e credo che se avessi mantenuto dei segreti sarebbe stato impossibile fare il film.

Stop the Pounding Heart è considerato un documentario, ma sembra tutt'altro. I protagonisti sono chiaramente persone vere, ma il linguaggio è quello del cinema. Tu come descriveresti in realtà il tuo film?
Lo descriverei come documentario. Nel documentario c'è sempre tensione tra la realtà e la rappresentazione della realtà: la rappresentazione è la mia, la realtà quella che mi trovo di fronte. Non ho un background da documentarista o etnografo, mi piace la forma di fiction, ho utilizzato il materiale documentaristico e documentato per creare una storia che lasciava adito a dubbi e mi piaceva proprio l'idea di giocare con il dubbio tra realtà e finzione. Però non c'è nessuna forzatura da parte mia, solo la voglia di spostarmi un po' dal linguaggio più convenzionale del documentario.

C'è qualche scena forte che al montaggio non ti sei sentito di includere nel film?
Ce ne sono alcune. Ho evitato quelle scene che avrebbero indotto il pubblico a un facile giudizio nei confronti delle famiglie. Sia nel corso delle riprese che del montaggio ho cercato la loro approvazione, ci tenevo molto, perché sono stati molto aperti nei miei confronti e non volevo sporcare la loro immagine. I ragazzi più giovani si sono aperti a loro insaputa troppo e non volevo tacciarli di fondamentalismo e integralismo.

Quando hai iniziato a lavorare a The Passage, il tuo primo film sul Texas, avevi già capito che ne sarebbe uscita una trilogia o è una cosa venuta lavorandoci?

È venuta lavorandoci. Con il secondo film (Low Tide, ndr) mi ero spostato dai travagli dell'età anziana a quelli adolescenziali, e allora ho capito che mi mancava un tassello e che avrei dovuto realizzare un terzo lavoro sul passaggio dall'adolescenza all'età adulta. Non mi dispiacerebbe continuare a parlare del Texas. Con il prossimo film, tuttavia, mi sposterò nel nord della Louisiana, dove c'è una disoccupazione del 60%: parlerò di una comunità in cui si produce metanfetamina e in cui tutti ne fanno uso. È un vero e proprio ghetto di bianchi, senza assistenza, abbandonati al proprio destino dalle istituzioni. In un momento in cui Obama viene fortemente criticato, mi sembrava cruciale andare a vedere cosa succede nell'America abbandonata a se stessa.

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